La città interiore di Mauro Covacich
Con La
città interiore Covacich si avventura sul terreno della ricerca memoriale,
facendo di questo libro un vero romanzo di formazione, ma anche il «suo»
romanzo su Trieste. Covacich
non si sofferma sulle componenti politiche destabilizzanti e sui momenti cupi
della Storia, preferendo risalire alle origini di una cultura ibrida di cui è
diventato il più recente e convinto erede: si parte da un bambino di sette anni
che attraversa una Trieste appena liberata dai tedeschi, nel 1945, reggendo una
sedia sulla testa, seguendo una sua bussola interna che lo conduce in braccio
ai salvatori dell’Armata Inglese, e si continua con questo bimbo ormai adulto e
padre, che nel 1972 accompagna suo figlio – anche lui di sette anni – a
contemplare la città dall’alto, a vedere il fumo di un attentato di Settembre
Nero. Due italiani della Zona A ormai divisi dai «cugini» istriani della Zona
B, smarriti ma convinti di vivere nella dimensione di un esilio perpetuo che ha
cambiato la Storia. Quel bambino del 1972 è Mauro Covacich, che da adulto torna
sui passi delle proprie radici, recuperando il tracciato morale e culturale
della sua stessa famiglia, dai nonni in odore di esilio a remote figure di
oscuri ma geniali eroi locali che hanno comunque lasciato un segno nel destino
dell’autore. Incontriamo
poi Freud e Svevo, Joyce e Saba, il musicista Bibalo e il poeta Ivan Goran (un
Kovačić) cantato da Éluard, su fino a Magris e a un imprevisto Coetzee... Ma
l’autore evoca qualcosa di più che il loro rapporto con la città di Trieste, e
la sua non è una saga familiare, per quanto interessante per la vivacità dei
ritratti e delle vicende. Ad attrarre è il confronto con una cultura e una
storia, una cultura determinata da una storia, una storia che è stata e
continua a essere un incrocio stupefacente e drammatico di culture.
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