lunedì 29 maggio 2017

  Il figlio di Philipp Meyer


Dalle grandi praterie annerite da immense mandrie di bisonti, agli smisurati ranch di proprietà di un pugno di allevatori che regnavano come monarchi assoluti su schiere di vaqueros, al paesaggio arido e desolato punteggiato dalle torri dei campi petroliferi, la storia del Texas occidentale è la storia di un susseguirsi di massacri, la storia di una terra strappata di mano più e più volte nel corso delle generazioni. E inevitabilmente anche la storia dei McCullough, pionieri, allevatori e poi petrolieri, è una storia di massacri e rapine, a partire dal patriarca Eli, rapito dai Comanche in tenera età e tornato a vivere fra i bianchi alle soglie dell'età adulta, per diventare infine, sulla pelle dei messicani e grazie ai traffici illeciti fioriti nel caos della Guerra Civile, un ricchissimo patrón. Ma se Eli McCullough non esita ad adattarsi ai tempi nuovi calpestando tutto ciò che ostacola la sua ascesa, suo figlio Peter sogna invece un futuro diverso, che non sia quello del petrolio che insozza la terra e spazza via i vecchi stili di vita, e non può che schierarsi con trepida passione dalla parte delle vittime. La storia, però, la fanno i vincitori, ed ecco allora Jeanne, la pronipote di Eli, magnate dell'industria petrolifera in un mondo ormai irriconoscibile, in cui di bisonti e indiani non c'è più neanche l'ombra, e i messicani sono stati respinti al di là del Rio Grande. Toccherà a lei affrontare un tragico e inesorabile ritorno del rimosso. Dopo aver esplorato, in Ruggine americana, le rovine dell'impero industriale statunitense, in questo romanzo western anomalo e modernissimo, fortemente politico e per nulla ideologico, Philipp Meyer indaga senza reticenze le origini di quello stesso impero, per raccontarci quanto è sempre stato sottile il confine che separa l'eroismo dalla ferocia.


Quando una giornalista del Los Angeles Times gli ha chiesto ironicamente se il fatto di aver abbandonato la scuola a 16 anni lo avesse aiutato a diventare uno scrittore, Philipp Meyer non ha avuto la minima esitazione a rispondere: «è stato il fattore decisivo, solo così ho potuto soddisfare le mie curiosità». Dopo un paio d’anni passati a riparare biciclette e come volontario al Pronto soccorso di Baltimora, la città del Maryland, dove è nato nel 1974 – è cresciuto nella periferia operaia di Hampden da una coppia che lui stesso ha definito come «bohemien intellettuali legati alle controculture» -, Meyer è tornato agli studi prima di lavorare a Wall Street. Ha lavorato anche come muratore. Durante l’uragano Katrina a New Orleans, è invece tornato a lavorare in un centro medico. Nel frattempo, aveva cominciato a scrivere, pubblicando nel 2009, dopo una serie di racconti, il suo romanzo d’esordio, Ruggine americana, salutato come un capolavoro dalla critica statunitense. Quattro anni dopo, grazie ad una borsa di studio e ad una full-immersion nella realtà e nella storia texana, è arrivato Il figlio. Il New Yorker ha inserito il suo nome nella classifica dei 20 migliori scrittori americani under 40.

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