martedì 1 agosto 2017

L'arte della fuga di Fredrik Sjoberg


«Le esperienze artistiche possono essere travolgenti quasi quanto gli amori», pensa Fredrik Sjöberg quando in una casa d’aste di Stoccolma rimane folgorato dal dipinto di un pino. Spinto dalla sua proverbiale passione per tutto ciò che è insolito, scopre che l’artista è Gunnar Widforss (1879-1934), tanto sconosciuto in Europa quanto amato in Nord America, dove è considerato «il pittore dei parchi nazionali» e ha dato il proprio nome a una cima del Grand Canyon. Comincia così un’avventura sulle tracce di opere, lettere e fonti sperdute per ricostruire la vita, la vocazione e l’ossessione di questo inquieto acquerellista: un vagabondo squattrinato alla solitaria ricerca di bellezza, stretto tra il bisogno di creare e l’ansia di riuscire, che dopo aver girato mezzo mondo pianta la sua tenda nello Yosemite e dedica i suoi giorni a ritrarre i più suggestivi paesaggi d’oltreoceano. Un viaggio che conduce Sjöberg in Nevada, Arizona e Colorado, nella wilderness di Emerson e Thoreau, attraverso la storia delle riserve, naturali e indiane, con il dubbio se servano più a proteggere o a ghettizzare. Un racconto che si snoda tra curiosità storiche e aneddoti spassosi, dalla nascita dell’industria del chewing gum alla carovana di cammelli che aprì la Route 66, dalla luce dei dipinti di Turner al tacchino che Benjamin Franklin voleva al posto dell’aquila come simbolo degli Stati Uniti. Irresistibile affabulatore, Sjöberg ci fa appassionare a un altro dei suoi eccentrici outsider con un nuovo capitolo della sua riflessione sul rapporto tra uomo e natura. 
Da un’intervista all’autore
Perché i lettori dovrebbero essere interessati a leggere di un acquerellista quasi sconosciuto?  Scrivo sempre di persone dimenticate, per differenti ragioni: sono un collezionista e un cacciatore, mi piace scoprire tesori nascosti. Avrei potuto scrivere di un pittore famoso, ma allora il lettore avrebbe avuto già dall’inizio un rapporto con lui, tipo con Picasso o qualcun altro, e invece qui non sai nulla e ciò mi dà l’opportunità di dare forma alla tua visione di quest’uomo. E poi mi dà l’opportunità di essere davvero esperto, sono ora il più grande esperto al mondo di Gunnar Widforss e non ci ho messo molto per diventarlo. Il libro riguarda i meccanismi della dimenticanza, come si finisce per essere dimenticati. […] riguarda anche la solitudine … qualcosa di cui tutti siamo spaventati. Ho capito che lui poteva aiutarmi a raccontarmi una storia, non esattamente la sua storia, ma qualcosa su di me, sulla natura, sulle connessioni con la natura.


In alcuni passi del libro lei lo descrive come un uomo piuttosto mediocre. Sì, non è di successo, non ha fascino, è basso, non è di certo un Modigliani. Ma c’è qualcosa di interessante in lui perché permette un’identificazione: io sono come lui, non posso raccontare di persone in cui non riesco a specchiarmi. In un certo senso questa è un’autobiografia, perché lui mi fa da specchio, è come un compagno di viaggio in cui m’identifico. E quando scrivo della paura di essere dimenticato, ovviamente parlo anche della mia paura di esserlo. Mi riconosco in questo giovane timido che viaggia per il mondo. Alla fine siamo diventati amici, anche perché abbiamo dei tratti differenti. 

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