lunedì 4 dicembre 2017

La nave negriera di Marcus Rediker

Un libro che sale a bordo e segue le rotte delle navi addette al redditizio commercio degli schiavi, per rivelare quanto si verificava nei secoli di questo sordido traffico. Ha coperto un lungo arco di tempo il dramma della tratta di carne umana dal continente africano, soprattutto verso le Americhe, attraverso l’Atlantico. Ed ha avuto innumerevoli attori nei quattrocento anni in cui si è protratto il mercato degli schiavi, dalla fine del XV secolo alla seconda metà del XIX. Più di 12 milioni di esseri umani furono stivati all’interno di battelli a vela e portati oltre Atlantico, per raggiungere centinaia di punti di consegna, disseminati lungo migliaia di chilometri di costa. Nella spaventosa traversata perirono un milione e mezzo di uomini, donne e bambini (i negrieri prelevavano solo soggetti sani tra i 12 e i 25 anni). I corpi finivano in pasto agli squali che seguivano le navi, ma chi non soccombeva andava incontro a un destino nel quale tutto si riduceva al cercare di resistere alla fatica, alle punizioni, alle percosse e ogni tipo di abuso. Altri erano già morti nel percorso tra il luogo di cattura e gli approdi negrieri sulla costa orientale africana. Una valutazione parziale li stima nel 15 per cento. Altri 750mila non superarono il primo anno di prigionia nel nuovo mondo, dei 14 milioni di persone che si calcolano coinvolti complessivamente in una tragedia sanguinosa.
Una contabilità spietata… Tolti i 5 milioni di “caduti”, sono stati ben 9 milioni i neri africani che hanno cambiato l’economia, la storia e il futuro degli Stati Uniti d’America.

L’età dell’oro dello schiavismo negriero è durata un secolo, dal 1700 al 1808 e ha comportato il trasferimento di due terzi del totale degli schiavi, più della metà dei quali ristretti in condizioni terribili a bordo di navi inglesi e americane. Soprattutto quel periodo, quei battelli, i prigionieri e i naviganti sono i protagonisti di questo libro. Il lavoro di Rediker evidenzia quattro categorie di drammi umani. Il primo si incentra nel rapporto tra i comandanti e gli equipaggi, l’uno presiedeva a tutto e doveva esercitare il suo potere senza pietà, gli altri eseguivano in mondo spietato un lavoro sporco. Il comportamento dei marinai nei confronti degli schiavi, in un contesto di violenze e stupri quotidiani, costituisce il secondo dramma. Il terzo scaturisce dalla coesistenza forzata di derelitti di etnie diverse e di tribù nemiche. L’ultimo scenario conduce alla società statunitense, nel momento in cui gli abolizionisti riuscirono a convincere i più dell’agghiacciante delitto umanitario che veniva commesso ai danni delle vittime di questo commercio di donne e uomini.

La rabbia dei vinti : la guerra dopo la guerra, 1917-1923 di Robert Gerwarth
«Questa guerra non è la fine, bensì l’inizio della violenza. È la forgia nella quale verrà plasmato un mondo con nuovi confini e nuove comunità. Nuovi stampi richiedono di essere riempiti col sangue, e il potere sarà esercitato con pugno di ferro.»                      Ernst Jünger


L’11 novembre del 1918 segna un momento decisivo della storia d’Europa: la fine di una guerra che aveva distrutto un’intera generazione e l’estinzione di grandi imperi secolari. Ma quale è stata l’eredità che ci ha lasciato la Prima guerra mondiale? Per una considerevole parte d’Europa (e non solo) gli anni successivi alla Prima guerra mondiale hanno contato molto di più — anche in termini di sofferenze — di quelli tra il 1914 e il 1918. In primo luogo la Russia, ma anche l’Ucraina, la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Finlandia, la Serbia, l’Irlanda. E, dall’altra parte del Mediterraneo, l’intero Medio Oriente. La rabbia dei vinti propone l’ipotesi che «per comprendere i violenti percorsi che l’Europa seguì durante il XX secolo, è necessario prendere in considerazione non tanto le esperienze belliche degli anni tra il 1914 e il 1917, quanto il modo con cui la guerra si concluse per gli Stati che la persero. Scontri armati si sovrapponevano alle rivoluzioni, alle controrivoluzioni, e alle ostilità di confine fra Stati in formazione, privi di frontiere chiaramente definite e di governi riconosciuti dalla comunità internazionale: «l’Europa postbellica degli anni che vanno dalla conclusione ufficiale della Grande guerra nel 1918 al trattato di Losanna del luglio 1923, fu il luogo più violento del pianeta».

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