La politica cinematografica del
regime fascista di Alfonso Venturini
Mussolini affermò che «la cinematografia è l’arma più forte».
Normalmente colleghiamo questo motto alla funzione propagandistica dei
documentari prodotti dall’Istituto Luce, ma l’interesse del fascismo per il
mezzo cinematografico riguardò anche i film a soggetto, come è dimostrato dalle
molteplici iniziative che, dagli anni Trenta in poi, lo Stato italiano mise in
campo per sostenere e indirizzare il cinema di finzione. Il libro di Venturini ci offre un
contributo che travalica i confini della storia del cinema, abbracciando il
campo della storia politica ed economica dell’Italia fascista. La produzione
cinematografica, infatti, è osservata dall’autore sia come espressione
artistica, sia come industria. Seguendo la vita di istituzioni e persone,
inoltre, il libro tiene conto delle continuità che legano il cinema del
Ventennio sia alla precedente età liberale, sia al successivo periodo
repubblicano. Il ritratto della politica cinematografica del fascismo che
emerge dal saggio è decisamente in chiaroscuro. Le iniziative del regime furono
molteplici ma spesso prive di un disegno organico coerentemente perseguito. La
profonda crisi in cui versava il cinema italiano negli anni Venti fu probabilmente
frenata, ma l’insuccesso di alcuni fra i più ambiziosi progetti finanziati
dallo Stato (primo fra tutti Scipione l’Africano, il kolossal del 1937
destinato a celebrare la conquista dell’Etiopia) rivelò i perduranti limiti
dell’industria cinematografica italiana.
L’investimento statale nella costruzione di Cinecittà fu forse il
lascito principale del fascismo, il quale pose così le basi per i fasti del
cinema italiano negli anni del boom economico.
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