La pietra lunare : romanzo : scene della
vita di provincia di Tommaso Landolfi
La pietra lunare, romanzo tra il fantastico e il surreale, pubblicato nel
1939, narra la singolare avventura di Giovancarlo, tornato al paese natale per
le vacanze estive, e si apre su una «scena della vita di provincia» grottesca e
quasi allucinata. «Dal fondo dell’oscurità»
il protagonista si sente guardato da «due occhi neri, dilatati e selvaggi»
che lo gettano nello stupore e nel terrore. E al tempo stesso egli non può fare
a meno di cogliere «un volto pallido, dei
capelli bruni, un seno abbagliante scoperto a mezzo». Così ci appare Gurù,
la fanciulla-capra, che presto condurrà Giovancarlo fra i «lunari orrori» di
creature diafane, fantomatiche, e fin nelle viscere della terra, nel regno
arcano delle Madri, in un percorso che è anche iniziazione erotica. Il mondo
sembra subito spartirsi in due specie di realtà, ostili e dissonanti. Una è
quella della vita gretta che si raccoglie intorno al desco familiare,
impregnata di un «odore pesante d’avanzi
di lavatura di piatti e d’insetti domestici». L’altra è quella che con la luna
si annuncia nel cielo, là dove «succedono
cose strane, e meravigliose», dove «ci
sono cose che corrono navigano girano per conto loro mentre noi dormiamo».
E si può dire che tali due realtà corrispondano ai registri fondamentali
dell’opera di Landolfi quale si prefigurava con nettezza in questo suo primo
romanzo, anno 1939.
Fratelli di Carmelo
Samonà
Forse c’è ancora un modo per distinguere la letteratura pura,
che non deve nulla alla dominante cultura dell’immagine e deve tutto solo alla
facoltà rappresentativa che appartiene in senso proprio alla scrittura. Quando
il lettore non assiste a un movimento che si svolge di fronte a lui, ma viene
mosso lui stesso dentro una scena, a perquisire lo spazio che si descrive,
indovinare i pensieri e i sentimenti che stanno dietro le parole di un
colloquio; quando non gli viene tanto narrata una vicenda quanto trasmessa, con
la vicenda, un’esperienza che nel lettore stesso si chiarisce come possibile e
sua. A questo tipo di letteratura apparteneva Carmelo Samonà. La sua attività
narrativa – scrive Francesco Orlando – fu spinta non dall’essere letterato, ma
da una precisa e personale urgenza esistenziale: parlare, descrivere,
comunicare, intorno a quel tipo di relazioni umane in cui ci si trova come
dinnanzi al volto della sfinge, interpellati direttamente sul senso. Fratelli,
uscito nel 1978 fu subito amato da critici e lettori. Racconta del rapporto di
due fratelli che vivono In una vasta casa di una città imprecisata. Uno dei due
è malato; l’altro lo assiste: una responsabilità di cui s’è caricato,
s’indovina, non con piena innocenza e infatti scrive, quasi a voler
impadronirsi dell’ultima parola. La partita tra loro è di parole, e l’oggetto
del contendere è il significato, di termini, oggetti, gesti, ricordi: quindi vi
si svolge la lotta eterna per difendere il confine della normalità dalla
minaccia dell’assurdo, che la normalità combatte con la coscienza di non avere
in fondo più ragioni. La comunicazione tra i due rimbalza come un’eco nella
dimora, deviata dagli oggetti, ampliata dai vuoti, gonfiata dai progetti o dai
deliri. E si innalza come una sommessa catarsi.
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